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UNA TRAGEDIA DEL LINGUAGGIO

Federico Tiezzi in conversazione con Fabrizio Sinisi

Da tempo volevi mettere in scena Fedra di Racine. Non Euripide, non Seneca – ma Racine. La versione del mito, fra tutte, più nera e colpevole, ma soprattutto quella più formalizzata, quella dove il verso è più rigoroso: una forma estrema, se non estremistica del linguaggio. Una stilizzazione che tu hai cercato spesso nel tuo percorso, la tua teatrografia è percorsa dalla poesia drammatica: Manzoni, Luzi, Testori, Pasolini…

È dal 1984 che penso a Racine, al suo verso: per la precisione da quando ho scritto in versi e messo in scena Genet a Tangeri, spettacolo nel quale avevo dato ai personaggi un colore, un sapore, un’altezza da eroi raciniani. Ho conosciuto Racine per la prima volta tramite le parole di Sylvano Bussotti, e questo è in qualche modo un segno premonitore, visto che in Racine io vedo sempre soprattutto la drammaturgica del verso, dei valori ritmici, fonici, che fanno tutt’uno con il trattato di didattica pulsionale che con essi vuole scrivere. Paul Valery scrive che “tra tutti i poeti, Racine è quello che si apparenta nel modo più diretto alla musica”. È una parola, quella di Racine, che sta sempre nella “indecisione tra significato e suono”. Nel verso c’è sempre qualcosa che sfugge al significato e qualcosa che sfugge al suono, un’ulteriorità, diciamo così, un “altrove del senso” dove provo a far lavorare l’attore. Nel caso di Fedra è poi una parola poetica continuamente doppiata: lavoriamo in una traduzione, quella di Giovanni Raboni, che è un poeta che amo molto, e quindi conferisce un doppio binario di linguaggio, una costante differenza di potenziale.

Dici che il tuo spettacolo si svolge sotto un doppio segno. Il primo è quello di Marcel Proust.

Proust in uno degli ultimi volumi della Recherche fa assistere il Narratore a una replica di Fedra di Racine recitata dalla Berma, un personaggio inventato che fonde le caratteristiche di due grandi attrici del Novecento: Sarah Bernhardt e Réjane. Per il Narratore si tratta di una sorta di epifania: vede l’Attrice come se assistesse alla rivelazione di un dio. Fedra per Proust è una sorta di luogo rituale per la manifestazione dell’attore, un testo che funziona come un rito che fa emergere la natura più profonda di quello che significa “interpretare”. Il verso di Racine è il “luogo dell’attore”: una piattaforma pericolosa, violenta, dove l’interprete viene portato in un punto inusuale del linguaggio e del sentimento. E d’altronde è sempre Proust ad articolare nel moderno la teoria dell’amore che vige dentro Fedra: si è portati per natura ad amare gli esseri in fuga, e la fuga in sé è una ragione d’amore; Fedra sembra un diagramma, dove ogni personaggio ama ed è amato, fugge ed è fuggito, e il desiderio si manifesta sempre come un dolore del possesso mancato, una passione dell’assenza, una forza negativa e crudele.

L’altro grande segno sotto cui fai svolgere la tua versione di Fedra è Freud – la tragedia si svolge come una grande metafora di un tentativo (fallito) di controllo del conscio sull’inconscio, una parabola sulla violenza del ritorno del rimosso.

Penso a Freud, ma anche a Lacan: è un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che “non può essere detto”, uno scandalo la cui emergenza è nella parola. È appunto il Grande Altro di Lacan, l’invisibile giudice esterno – il Pubblico, in un certo senso – che tiene in tensione la parola tra un soggetto e un altro, coinvolgendo desideri, corpi e linguaggio. Non appartiene a un soggetto specifico ma sorge tra due soggetti, e i significanti delle loro parole li mettono in comunicazione. E così abbiamo per ognuno dei personaggi principali uno “psicanalista” al seguito: Enone per Fedra; Teramene per Ippolito; Ismene per Aricia.

Insomma, non si esce dalla tragedia del linguaggio.

C’è un percorso labirintico nelle parole di Fedra, un seguire una via e poi allontanarsene, un continuo mutare direzione al discorso. Niente è mai diretto, tutto deve fare dei “detours”. Tutto viene sempre eluso, rifratto. La parola è un labirinto che si fa continuamente teatro di conflitti: Amore-Morte, Maschile-Femminile, Natura-Storia, Eros-Thanatos, Pieno-Vuoto, Società-Privato, Corpo-Mente.

Un labirinto dove si annidano mostri. Il mostro è un grande tema di questa tragedia.

 La parola “mostro” è una tra le più frequenti occorrenze verbali e torna continuamente nella storia. Ma il grande mostro, sotteso a tutti gli altri, è quello che si nasconde nella mente di Fedra: la hybris, che non è l’arroganza ma la dismisura – la passione incestuosa, la sensualità fisica che spinge fino allo scandalo e alla morte. Non dobbiamo scordarci che Fedra è una tragedia didattica: è una storia di limiti oltrepassati, di ordini spezzati, di naufragi fisici e morali. Insomma, l’amore porta con sé il disordine, è principio di caos.

Un’altra operazione che fai è mettere in comunicazione il mondo moderno – che in Racine sta avendo il suo esordio – con il modello classico a cui fa la tragedia fa riferimento. Ma è una comunicazione asimmetrica, spezzata, collocata in un cortocircuito.

Questo testo è oggetto di una sovrapposizione continua con il modello classico: c’è Euripide, c’è Seneca, ma ci sono anche autori non drammatici come Saffo, Alceo, Pindaro. È come se in Fedra Racine volesse evocare ciò che resta dell’età classica, ricostruendola attraverso reliquie, lampi, frammenti, ma allo stesso tempo ne constatasse l’impossibilità, ne celebrasse la fine. Il risultato è una sorta di requiem allucinato e interiore, mentale e straniante, pieno di dolore e di lontananza. Questi personaggi sono la rappresentazione di un mondo che sta cadendo sotto i colpi della scienza, quella scienza che porterà prima all’illuminismo e poi alla psicanalisi, in un processo che trasforma Edipo da mito in complesso. In Racine assistiamo al punto iniziale di questo movimento. È in questo fermento – in un cui un’epoca finisce e un’altra ne inizia – che, rovesciando la celebre epigrafe di Goya, il levarsi della ragione genera mostri. Quei mostri sono i “casi clinici” di Freud: esseri dominati da passioni che né la religione né la morale né la ragione riusciranno mai a domare del tutto.