Il cappotto
Debutto: Teatro Arena del Sole, Bologna, 05/11/2013
A proposito di questo spettacolo
Uno dei racconti più famosi di tutta la letteratura mondiale rivive sulla scena grazie a Vittorio Franceschi, autore del testo e interprete. A dirigerlo Alessandro D’Alatri, regista diviso tra cinema, teatro e pubblicità.
Il testo si rifà a uno dei racconti più famosi di tutta la letteratura mondiale: Il cappotto di Nikolaj Vasil’evič Gogol’. Molti attori e registi si sono cimentati con questa opera e con il suo eroe, Akàkij Akàkievič, attraverso adattamenti vari o semplici letture. In Italia se ne occupò anche il cinema: Alberto Lattuada, nel 1952, ne trasse un film con Renato Rascel protagonista.
Ai miei occhi è sempre apparsa come la storia di un innocente. Ma forse sarebbe meglio dire di un semplice. Non di uno sciocco, non di un essere colpito da speciale accanimento del destino. É la storia, credo, della maggioranza degli esseri umani, dei “copisti della vita” i quali mandano avanti il mondo pur subendone le violenze e gli insulti, e ripetendone all’infinito le parole e gli usi, i sentimenti e i desideri, i sogni e i naufragi. Quindi si parla di noi, anche se Gogol’ questo racconto l’ha scritto nel lontano 1842. Credo che un grave errore sarebbe stato quello di trasferire la storia di Akàkij nei giorni nostri, come spesso si usa fare con i classici. Non ce n’è bisogno. Siamo tutti vecchi Pietroburghesi. Di quella città conosciamo a fondo gli angoli delle strade, i volti dei passanti, le voci, i rumori e gli odori, perché sono gli stessi di Milano e di Torino, di Bologna e di Genova, di Roma e di Napoli e di tutte le città italiane di oggi e di sempre. La marmaglia rapace dei presuntuosi, dei vili, delle mezze calzette, dei barattieri e dei prepotenti cammina e traffica al nostro fianco, come camminava e trafficava al fianco di Akàkij Akàkievič ai tempi dello Zar Nicola I. Akàkij non si aspetta nulla, non reclama nulla più delle minuscole briciole di pane e di gioia di cui si ciba e vive. Gioia per lui è poter copiare in bella calligrafia quel che hanno scritto gli altri. È la sua missione, e si ha l’impressione che dalla sua penna il mondo si sforzi di uscire migliore. Ma l’unica volta che la vita lo costringe a una grande prova, ne è schiacciato fino a morirne. Non era in grado di reggerne il peso, non era preparato. Infatti, di quel meraviglioso – e minaccioso – cappotto nuovo lui avrebbe fatto volentieri a meno. Gli bastava rammendare quello vecchio. Ma le convenzioni sociali e l’arbitrio degli arroganti, più che il freddo dell’inverno, lo hanno sovrastato e vinto. In una società che rottama gli uomini insieme alle cose, il suo vecchio cappotto, che “fra toppe e rammendi era tutta una piaga” come la casacca di Geppetto, è quello che prende luce alla fine della storia e quasi sventola come una bandiera.
Di questo racconto ho rispettato la trama eliminando solo l’appendice (Akàkij che riappare come fantasma) perché in teatro i doppi finali non funzionano e perché la vera storia, ai miei occhi, si conclude nel momento della sua morte. Dei dialoghi, però, sono responsabile io, essendo essi assai scarsi nel racconto originale, e poco utilizzabili. Con questa difficile operazione ho cercato di dare verità a una vicenda ambientata in tempi lontani ma attualissima, adoperando la lingua di oggigiorno e cercando di difenderla da quelle tentazioni gergali che avrebbero fatto a pugni con l’ambientazione d’epoca. So di essere stato, in alcuni passaggi, “traditore”, com’è quasi d’obbligo quando si lavora su opere o materiali altrui. Ma non nelle linee principali e sempre con il rispetto dovuto a un gigante della letteratura e del teatro la cui morte, nella sua desolata solitudine, sembra ispirarsi proprio a quella del minuscolo Akàkij. Ho cercato, in definitiva, di essere onesto con Gogol’ e il più possibile fedele alla mia personale e ormai lunghissima avventura nel teatro, senza dimenticare che il pubblico qualche volta vorrebbe anche divertirsi, possibilmente in modo garbato, senza le trivialità che deve sopportare ogni sera, puntuali come le tasse, in teatro, alla TV e al cinema, e delle quali farebbe volentieri a meno.
Tornando al nostro protagonista e per dirla con Flaubert – sommessamente e senza presunzione – Akàkij Akàkievič sono io… anche se un po’ meno innocente del nostro eroe.
Vittorio Franceschi