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Guardati Intorno
Appunti di viaggio per una cartografia teatrale dei nostri ‘tempi interessanti’
«Oceano Indiano. A bordo del Pedrillo. 14 dicembre 1912. […] Pochi nomi turbavano la mia fantasia adolescente quanto il nome di Goa: Goa la Dourada. Oh! Visitata cento volte con la matita, durante le interminabili lezioni di matematica, con l’atlante aperto tra il banco e le ginocchia: ora passando attraverso l’istmo di Suez e il Mar Rosso, l’Oceano Indiano, ora circumnavigando l’Africa su un veliero che toccava le Isole del Capo Verde, il Capo di Buona Speranza, Madagascar…»
(Guido Gozzano, Verso la cuna del mondo. Lettere dall’India)
Fin dai suoi albori, un capriccio seducente accompagna e ossessiona l’uomo moderno, tra realtà e fantasia: il desiderio prepotente di evadere, di andare oltre, di viaggiare lontano, di superare il limite… Da Colombo a Neil Armstrong, giù giù fino a Jacques Cousteau o Reinhold Messner fitta è la schiera degli intrepidi viaggiatori dei ‘tempi nuovi’; su tutti si allunga l’ombra enigmatica del leggendario ‘viandante’ di Friedrich, perso nella contemplazione del suo vasto mare di nebbia (chissà poi quali incomprensibili mondi si nasconderanno sotto la fitta e candida coltre di fiocchi di vapore sfilaccianti verso il cielo, distesa ai suoi piedi?).
Sulla scorta delle tante esplorazioni che hanno innervato l’età moderna e il suo dopo – senza per altro rinunciare alla sua strenua interrogazione dei nuovi modi attraverso i quali il linguaggio teatrale si viene declinando nella luce incerta di questa inquieta mattina del nuovo millennio –, per la stagione che va ad iniziare continua dunque il lungo viaggio di ERT attraverso i ‘tempi interessanti’ che viviamo, ma, concluso il capitolo dell’interrogazione sul domani e sulle incerti sorti del concetto stesso di futuro sviluppata nel corso dell’anno passato, abbiamo scelto – per i mesi a venire – di concentrare l’attenzione dei nostri palcoscenici sullo spazio (o sugli spazi) rizomatici o frattali, interdipendenti, policentrici e multiprospettici che quotidianamente, oggi, attraversiamo; sul labirinto di luoghi reali e virtuali che giorno per giorno, in un inestricabile intreccio di interconnessioni, calpestiamo, vagheggiamo, temiamo, disprezziamo, amiamo (e che in fondo siamo); sulla foresta di strade, piazze, città e paesaggi più o meno abbandonati, attraverso i quali inseguiamo i nostri progetti o fuggiamo dai nostri più segreti terrori (quell’area industriale dismessa, il nontiscordardimé sbocciato nelle ferite dell’asfalto autostradale cotto dal sole, il prato spelacchiato in cui annegano i binari morti di una stazione ferroviaria di periferia…); sulla grottesca e fantasmagorica plancia, insomma, di quel vorticoso e insensato giuoco dell’oca che sembra un po’ essere diventata la nostra storia planetaria: «Colui che fa 12 va al 110 e ci trova SUPERGIRL, e può tirare una volta sola con un solo dado […]. Colui che va al 55, e dietro la macchina da presa vede l’occhio dello scheletro, retrocede dov’era prima, senza pagare; se per caso tirando di nuovo tornasse al 55, ritornerà un’altra volta al suo posto. Colui che va al 50, che è l’ultima cella, paga e vi resta fermo finché un altro lo leva e si ferma al suo posto, pagando il convenuto»… E torna subito alla mente il magistero cartografico dell’ingegnosa vedutista Gertrude Stein, con la sua suggestiva planimetria della Storia geografica dell’America e la sua poetica contemplativa del dramma-paesaggio.
A partire da una mappatura, fisiologicamente parziale, ma il più possibile vigile di quanto sta muovendosi sulle scene contemporanee (in Italia, ma non solo) e di come stiano via via mutando le pratiche drammaturgiche, registiche, attoriali e interpretative o i concetti di rappresentazione e creazione, una stagione-atlante del cuore e della mente, dunque, il cartellone ERT 2018/2019. Un cartellone tutto teso a ricomporre, sull’ordito dei nuovi codici della scena, la complessa geografia di emozioni e relazioni su cui si tesse l’impalpabile trama del nostro vivere; a tratteggiare il ‘panorama interessante’, tra Bruegel e Rousseau, Bosch e Ligabue, di fake news sbandierate e catastrofi dimenticate che ci circonda; a raccontare, soprattutto, il giro ‘glocale’ del nostro orizzonte: quel groviglio ingarbugliato di contrade lontane (mai così vicine) e di un palpitante qui ed ora (troppo spesso mai così remoto) in cui viviamo immersi – costretti come siamo, da oltre mezzo secolo, a trascorrere le nostre esistenze, qui, tutti insieme, al confino del caleidoscopico villaggio globale teorizzato da McLuhan. Come ben sapeva Gadda, d’altronde, «se una libellula vola a Tokio, innesca una catena di reazioni che raggiungono me». Una guida, speriamo, efficace per affrontare questo nostro presente on the road, mobile, volatile e disperso – battuto dai flussi incessanti delle grandi migrazioni di massa, squassato dai conflitti tra culture letteralmente distanti e divergenti, diviso tra nazionalismi e aspirazioni comunitarie alla ‘pace perpetua’, attratto dal turismo e dedito a sempre nuovi e inauditi pellegrinaggi, minacciato dall’onnipresente maledizione del ‘rischio’ globale (politico, economico, climatico, naturale…) e preda dell’incerto andamento delle quotazioni di una borsa valori planetaria tutta intenta a inseguire le volubili traiettorie di boom economici inattesi e di non meno subitanee grandi depressioni cicloniche di default nazionali – saltabeccando tra paesi emergenti e porcini, stati canaglia e grandi potenze, terrori e miserie di post- e neo- colonialismi di vario conio. Un presente nato circa un secolo fa dall’oscuro ventre della Grande Guerra (europea) e svezzato col sangue della seconda atroce mattanza mondiale, ma malgrado tutto pronto ancora a interrogarsi sul senso e sull’opportunità di costruire e abitare una comune casa europea, nemico com’è del «mostro buono di Bruxelles» coi suoi invadenti tentacoli burocratico-finanziari e apparentemente dimentico della preziosa eredità culturale meticcia costruitasi nei secoli sotto i cieli del nostro vecchio continente sul filo del dialogo incessante e vivacissimo, ancorché non di rado sofferto, tra le varie voci dell’Europa. D’altronde, davanti a questa stagione-panorama squadernata per i quattro angoli del globo e i mille anfratti del vivere in comune, difficile non ricordare che laggiù, nel tempo mitico dell’origine, Dioniso, dio della scena, giunge nella «terra dei Tebani» dal più remoto Oriente, dopo aver attraversato implacabile «le campagne dei Lidi, ricche d’oro» e «le campagne dei Frigi», «le pianure dei Persiani, battute dal sole» e «le mura di Battra», «la terra dei Medi, / dai gelidi inverni, e l’Arabia felice, / e tutta l’Asia che si stende lungo il mare salato»…
Se già etimologicamente il teatro è per sua natura il luogo della contemplazione (e il luogo del confronto), motto delle nostre esplorazioni sarà, allora, un semplice e diretto: «guardati intorno», occhi negli occhi coi nostri interlocutori. Un invito suadente alla libertà del guardare, rimuovendo freni ed inibizioni, ostacoli e censure, per ritrovare se stessi in ciò che ci circonda o al fondo del nostro io. Un incoraggiamento ad esplorare la realtà (esistenziale) e a scoprirla, al di fuori di ogni pregiudizio, nelle sue molte pieghe e nelle sue tante contraddizioni, nei suoi scorci insospettati e nella sua ampiezza sterminata e brulicante, nel suo respiro ora affannoso, ora placido e disteso. Un incoraggiamento al dialogo, al rapporto fiducioso tra ‘io’ e ‘tu’, matrice di ogni comunità. Ma anche (e forse soprattutto) un monito; un vero e proprio precetto ‘didatticissimo’ – di sapore quasi neo-galileiano –, che fa leva sulla natura politica del fare teatrale. In questi «tetri tempi» di viscerali rigurgiti di antipolitica, «guardati intorno» vuole pure essere, infatti, un’apodittica esortazione tutta politica a districarsi nella selva delle mistificazioni, a mantenere vigile la coscienza, senza rinunciare brechtianamente al divertimento, figlio del piacere della scoperta, con l’intenzione ferma e tenace di cambiare il mondo. Un «guardati intorno», a metà strada tra l’“affina la tua capacità di giudicare, assumendotene in toto la responsabilità”, e il “prenditi cura” (di te, della comunità, del bene pubblico…). Non solo: “ritrova te stesso davanti alla complessità del mondo”, quindi, ma anche: “interrogati lucidamente su come interagire con questa complessità”. Probabilmente, avrebbe detto qualcuno, non è più tempo di sognare, è tempo di svegliarsi…
«Stretta è la foglia / larga è la via / dite la vostra / che io ho detto la mia», era solito cantare il saggio. Dopo «tutte queste fermate e avanzate e ritorni e pene e pagamenti, innante e indietro, quante fiate correndo come» matti, qual è, dunque, il «sugo della storia»? A chiusa del suo minuzioso regesto invisibile dell’intero sistema delle città possibili (Diomira, Isidora, Dorotea, Zaira, la Nuova Atlantide, Utopia, La città del Sole, Enoch, Babilonia, Brave New World…), scriveva Calvino: «L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Guardati intorno, allora (senza rinunciare, magari, a divertirti!).
Direttore Emilia Romagna Teatro Fondazione
Claudio Longhi