Fedra: la tragedia e la sua forma
a cura del Prof. Lorenzo Mango
1. Le coordinate storiche
Jean Racine scrive Fedra nel 1677. Il testo va in scena lo stesso anno presso l’Hotel de Bourgogne, uno dei più importanti teatri Parigi, con l’interpretazione, nella parte del titolo, di Marie Champmeslé, una delle migliori attrici tragiche del suo tempo. Racine curò personalmente il lavoro dell’attrice sulla parte per farle raggiungere quella che, secondo lui, era la giusta intonazione del verso.
Lo spettacolo ebbe un discreto successo ma, contemporaneamente – con una logica che ricorda la concorrenza dei moderni prodotti commerciali – venne presentato uno spettacolo che aveva lo stesso tema, determinando una competizione del pubblico che amareggiò terribilmente Racine che smise di scrivere per il teatro per più di dieci anni.
Nel 1680, però, quando, su ordine di Luigi XIV, le tre principali compagnie parigine, compresa quella di Molière orfana oramai del suo fondatore, furono riunite in un’unica compagnia di stato, la Comédie française, il testo scelto per il debutto fu proprio Fedra. La Comédie française, che è la più antica istituzione teatrale europea tutt’ora operativa, nasceva con due precisi obiettivi: realizzare un teatro di stato che celebrasse l’immagine del re e della nazione e individuare nella forma classica la soluzione estetica che meglio si adattava a quello scopo. La scelta di Fedra va inquadrata in questo contesto. La tragedia di Racine esemplificava al meglio l’immagine di un teatro classico, sia per quanto riguardava la scrittura drammatica sia per il tipo di recitazione, estremamente normata ed equilibrata, che le si adattava.
Il posto di Fedra nella storia del teatro, dunque, non è quello di un testo, per quanto pregevole, tra gli altri ma è quello di un vero e proprio modello. E la questione dei modelli stava diventando incandescente in Francia, grazie a una disputa, che era culturale ma aveva anche forti riscontri politici, che è passata alla storia come la Disputa tra gli antichi e i moderni. I sostenitori del primo partito, quello degli antichi, sostenevano che gli autori classici fossero un modello inarrivabile e che, quindi, la sola cosa che si potesse fare era imitarli. I sostenitori del partito dei moderni, pur riconoscendo l’autorità indiscussa degli antichi, ritenevano che essi avessero dei limiti che gli autori moderni potevano emendare, sviluppando e migliorando quanto era lì in embrione. La Fedra fu ritenuta il testo campione del primo partito, anche perché il suo leader era un grande amico di Racine. Una simile posizione aveva le sue ragioni: Racine, nello scrivere il suo testo, si era basato sull’Ippolito di Euripide, di cui ripercorreva quasi alla lettera la trama. Addirittura si potrebbe essere portati a pensare alla Fedra di Racine come a una riscrittura dell’originale euripideo, il che sancirebbe il primato del modello. Guardando alle cose da una prospettiva contemporanea, però, esse appaiono in una luce piuttosto diversa. Anzitutto Racine cancella l’intervento di Afrodite che, in Euripide, compie una malia su Fedra per farla innamorare incestuosamente del figliastro Ippolito. Nessun intervento esterno, dunque, nel motivare l’azione ma solo la spinta, interna, di una passione incontenibile con cui e contro cui il personaggio, per tutto il corso della tragedia, è chiamato a confrontarsi. Non è una scelta di poco conto perché pone Fedra allo specchio con se stessa, in una dimensione da cui emerge tutta la dialettica psicologica del personaggio. Rispetto al personaggio ancora bidimensionale di Euripide, quello di Racine ha una terza dimensione che si chiama psicologia. Altrettanto fa Racine con Ippolito che fa innamorare di Aricia, un amore proibito dal padre Teseo, perché, come scrive nella Prefazione al testo, diversamente, restando bloccato nella sua immagine di giovane intangibile dall’amore, avrebbe avuto meno spessore.
Ciò che emerge, se si va a scandagliare un po’ in dettaglio tra le parole del testo, è che la trama conta fino a un certo punto, per Racine, e ciò che lo interessa è, invece, mostrare la psicologia dei personaggi nella loro dinamica, nella loro contraddittorietà e nella loro profondità. Ora tutto questo, all’altezza cronologica in cui è scritta la tragedia, è straordinariamente moderno e quindi arruolare Fedra nel partito degli antichi è, quanto meno, da un punto di vista storico limitativo, rivelando, viceversa l’opera di Racine una straordinaria dialettica tra antico e moderno.
2. L’architettura drammaturgica
Nella Prefazione a Fedra Racine scrive che questa è «la cosa forse più razionale che abbia messo in scena», ma non specifica, poi, cosa intenda, se non sottolineare lo scenario morale, il vizio punito e la virtù premiata, che si respira nella tragedia. Di più non dice, lasciando in sospeso il discorso su un tema che, invece, è di primaria importanza. Cosa si intendeva, all’epoca di Racine, con opera razionale? È un concetto di matrice rinascimentale che indica un’opera in cui agiscano, nel giusto rapporto fra loro, ordine, armonia, proporzione, equilibrio, simmetria. Razionale è quell’opera in cui la dialettica tra questi elementi definisce le coordinate di una forma organica in grado di presentare i suoi argomenti nella maniera più chiara, sviluppata e dialetticamente organizzata possibile. L’allusione che fa Racine è a questi principi compositivi che riguardano più il modo in cui è organizzato il racconto drammatico che il tema stesso. La razionalità della Fedra riguarda, allora, in primo luogo la sua struttura. È esaminandone l’impianto e i nessi strutturali che capiremo quanto c’è di Racine in quel racconto.
Cominciamo dalla cornice più esterna: Fedra è divisa in cinque atti e questa è una regola che veniva dal mondo antico attraverso l’Ars poetica di Orazio. Niente di originale, dunque, come originale non era il fatto che a ogni atto venisse assegnata una specifica funzione nella costruzione dell’azione. Nella norma il primo atto è dedicato alla presentazione dei casi e dei personaggi; il secondo all’introduzione dell’elemento di crisi; il terzo al climax tragico; il quarto alle sue conseguenze e il quinto alla soluzione degli avvenimenti. Racine rispetta questa sequenza ma la caratterizza in una maniera del tutto personale. La presentazione del primo atto non riguarda tanto le coordinate dell’azione ma la rivelazione che Fedra e Ippolito fanno a se stessi dei loro sentimenti, parlando coi loro confidenti. Si tratta di un’autorivelazione che evidenzia, fin da subito, la complessità degli stati psicologici dei personaggi. Il secondo atto lo potremmo denominare quello delle dichiarazioni d’amore. Dopo che anche Aricia, parlando con la sua nutrice, è entrata nel gioco delle autorivelazioni d’amore, è il momento di due scene il cui tema, l’enunciazione di quell’amore tenuto, sin lì, latente è reso esplicito. Ippolito lo fa con Aricia, ed è un amore benedetto che, nonostante tutte le difficoltà che potrà incontrare, si apre al futuro; Fedra, viceversa, lo fa con Ippolito, non per chiedergli di essere ricambiata, ma per maledirsi e chiedere da lui la morte. Come già nel primo atto, è evidentissima qui una simmetria. Stavolta messa a sostegno di due mondi emozionali opposti e in conflitto, dove, nel primo atto, è più parallela e, per certi versi, paratattica.
Giungiamo, così, al terzo atto, quello del climax tragico, che non coincide, quindi, nell’architettura drammaturgica di Racine con l’incontro tra Fedra e Ippolito che chiude, invece, il secondo di atto. Lo possiamo chiamare l’atto di Fedra, pure se è anche quello del ritorno di Teseo che avviene, però, in un modo molto brusco e, per molti aspetti, sospeso, non potendo, così, assumere quella centralità che, viceversa, sul piano più strettamente narrativo, avrebbe. Perché atto di Fedra, allora? perché la vediamo protagonista di due scene madri con la nutrice Enone. Nella prima parte è dominata dallo sconforto per l’atteggiamento gelido che Ippolito ha avuto mentre lei si dichiarava (e si malediceva). Dopo un po’, però, Fedra cambia stato d’animo, mutando di respiro: è stata troppo irruenta, Ippolito è digiuno in cose d’amore. Ha fatto solo uno sbaglio ma lo emenderà incaricando Enone di andare a offrire a Ippolito quello a cui, secondo lei, più tiene: il pieno potere su Atene. È una Fedra che spera, allora, quella di cui siamo testimoni.
Enone si avvia ma torna subito sconvolta: Teseo, che si riteneva morto, è vivo e sta arrivando. Fedra cade nuovamente nello sconforto: non solo non ci sono più speranze di riavvicinare Ippolito ma questi sicuramente la denuncerà e per lei sarà la morte e il disonore. Enone, però, le propone di andare a denunciare lei, a nome della padrona, una pretesa violenza di Ippolito. Anche questa scena, simmetricamente alla prima, si conclude con un: mi affido a te, rivolto a Enone.
Quest’ultima, piccola, simmetria, ci rivela come tutto l’impianto dei primi tre atti si regga sulla giustapposizione di situazioni simmetriche che si esprimono in scene di ampio respiro sia nel confronto tra i personaggi e i loro confidenti sia negli scambi dei personaggi tra loro. Questo dà al ritmo dell’insieme una cadenza ordinata, fortemente enunciativa, in cui ciò che conta è che il personaggio si esprima con la più chiara evidenza e con dovizia di particolari. È un ritmo piano e regolare quello della prima parte della Fedra che ha come climax il doppio confronto che Fedra ha con se stessa. Anziché metterci l’azione tragica, al centro del testo Racine mette un approfondimento e un’amplificazione estrema dell’enunciazione psicologica del personaggio. È una scelta di grande respiro drammaturgico che esprime tutta la modernità di Fedra.
Ma fermiamoci un attimo sul ritorno di Teseo. Tutti i personaggi si esprimono, nella tragedia, attraverso discorsi molto articolati e molto lunghi, che determinano quel ritmo piano di cui si è parlato. Ci prova anche Teseo, col discorso del ritorno, ma è interrotto dopo soli due versi prima da Fedra e poi da Ippolito. Sono interruzioni di cui non sa spiegarsi la ragione ma che cambiano decisamente il ritmo dell’azione. Il finale del terzo atto è caratterizzato da un precipitato degli eventi, che accelerano la percezione dello spettatore e la lasciano sospesa.
Il protagonista a pieno titolo del quarto atto è Teseo. Questi, dopo aver ascoltato la denuncia di Enone, dapprima si scaglia ferocemente contro il figlio Ippolito, che accetta quella tempesta senza reagire e denunciare a sua volta Fedra, perché il padre non abbia a soffrire ancor di più. Confessa il suo amore colpevole per Aricia e si appella, per il resto, alla sua integrità ma non basta, viene esiliato e affidato alla punizione di Nettuno. A questo punto Teseo incontra Fedra che, pentita, è venuta a mitigare la sua ira ma Teseo non si placa e le rivela che, per mascherarsi, Ippolito si è inventato (questo è quello che crede) un amore per Aricia. Questa rivelazione è un’ulteriore occasione per lo sprofondamento nelle zone più oscure della psiche di Fedra. Racine le mette in bocca il torrente di sentimenti e di sofferenze che nascono dal confronto tra l’amore lieve e pieno di futuro dei due giovani e il suo maledetto. Scaccia, quindi, Enone e resta nella sua disperazione. Fedra, nel quarto atto, ci rivela nuovi, sottili aspetti del suo animo, Teseo, viceversa, non sa, letteralmente, cosa pensare e si affida all’istinto e alla rabbia, muovendosi alla cieca.
È quanto farà anche nel quinto atto, quello della catastrofe tragica, parlando con Aricia che gli dice di sapere cose su cui ha giurato, però di tacere, o quando viene a sapere del suicidio di Enone. La rabbia scema e, con lei, la nebbia che lo ha accecato e indotto ad agire prima di pensare. Manda, così, a chiamare Ippolito, ma è troppo tardi e non gli arriverà che il racconto della sua terribile, quanto eroica, morte. La tragedia si sta richiudendo su se stessa e, soprattutto, attorno a Teseo che, senza alcun filtro, passa dall’ira alla disperazione. È il momento di chiudere i giochi. La tragedia, almeno in una sua parte, si è conclusa. Però manca l’enunciazione della verità di ciò che è successo e l’unica che può produrla è Fedra che arriva in scena confessando il suo delitto e il suo abominio. Prima di venire ha, però, bevuto un infuso venefico e così parla da già morta. Teseo, che non ha saputo capire il figlio, non si può nemmeno scagliare contro la moglie. La tragedia finisce così, con Teseo travolto dagli eventi al di là della reale comprensione che di essi può avere.
3. La parola e il silenzio
La vicenda di Fedra esiste, in Racine, grazie a due elementi che agiscono in maniera complementare tra loro: il rigoroso principio geometrico della composizione e l’enfasi sulla dimensione psicologica dei personaggi e soprattutto di Fedra. Se non si tengono presenti questi elementi si resta ammanettati alla trama e si perde ciò che principalmente interessava Racine e cosa ci interessa, oggi, della sua Fedra. È solo tenendo assieme geometria e psicologia che riusciamo a comprendere la drammaturgia dell’opera. Se ci limitassimo, come talvolta si è tentati di fare, a enfatizzare solo la psicologia ci perderemmo un cinquanta percento di Racine e rischieremmo di trattare il suo personaggio teatrale come fosse un personaggio della realtà.
Ma dove si incontrano geometria e psicologia? Nel terzo elemento costitutivo della scrittura tragica di Racine: la parola. Ne dice Roland Barthes in una maniera illuminante: «Ma che cos’è che rende così terribile la parola? In primo luogo, essa è un atto; la parola è potente. Ma soprattutto è irreversibile». È un’affermazione che mette in gioco la parola come veicolo non solo del senso e del racconto ma della stessa condizione tragica. La parola è il luogo in cui i sentimenti, anche quelli colpevoli, prendono forma, dove esistono. Prima della loro enunciazione essi vivono in una nebulosa indistinta che è la condizione pre-tragica, solo quando assumono forma e corpo, cioè parola, essi spostano gli equilibri tra i personaggi e, in primo luogo, l’equilibrio del personaggio con se stesso, come accade nel caso di Fedra. La parola è il luogo del tragico, dunque, nel suo senso più alto. Ciò che è detto è fatto e ciò che è fatto, come nota Barthes, è irrimediabile, e quindi tragico.
Viceversa ciò che manca è l’azione. Non ci sono che succedano, nel testo, che non siano cose verbali e questa è una delle grandi eredità che Racine recupera dalla tragedia attica. C’è un momento del testo in cui questo appare con sconvolgente evidenza: la morte di Fedra. Siamo alla fine della tragedia, tutto è compiuto ma la verità degli eventi rimane segreta, sta a Fedra rivelarla. Compare in scena e parla, allora, racconta ciò che ha fatto e cosa questo ha comportato scagionando Ippolito. Prima di entrare in scena ha bevuto un veleno, per cui può parlare perché, in realtà, parla come già morta. Non ci sono segnali di questo, però, nel suo modo di disporre il discorso, alto ordinato, compiuto. Anche le sue ultime parole, in cui nomina la nebbia che le offusca lo sguardo, sono perfettamente e poeticamente risolte. La sua vita finisce qui e solo Panope che grida: Fedra muore, ci riportano sul piano di realtà. Come muore, allora, Fedra? Muore nell’enunciato verbale che fa della sua morte. Verrebbe da dire che muore in piedi, la sua morte non consistendo in altro che nella sospensione della parola.
Questo stato assoluto della parola come è manifestato nella tragedia? la parola serve al personaggio per enunciare chi è e cosa sente. Per realizzare questo obiettivo Racine offre a Fedra, Ippolito e Aricia, un interlocutore privilegiato, che sia nutrice o precettore, con cui il personaggio ha l’opportunità di parlare e di dichiararsi per quello che è. La dinamica della parola tragica si realizza, in primo luogo, nella dialettica tra personaggio e confidente. È quest’ultimo che spinge il personaggio a parlare e rivelarsi, che gli offre uno specchio entro cui riflettere la sua identità. È una funzione strategica nella organizzazione dell’azione che precede e motiva gli incontri che, poi, i personaggi hanno tra di loro e che sono determinati da quanto il personaggio ha detto al suo confidente. Da un punto di vista compositivo il confidente è ciò che consente di aggirare il monologo. Parlando col confidente il personaggio parla con se stesso, con una parte di sé che lo conduce a capirsi. Le ampie parti di dialogo tra confidente e personaggio è come se avvenissero all’interno di quest’ultimo, ma c’è anche un’altra funzione che assolve il confidente. Egli riporta il personaggio con i piedi per terra, gli mostra la vita in una prospettiva più immediatamente pratica. Straordinario, da questo punto di vista, il primo dialogo tra Fedra ed Enone. La regina ha appena espresso, con espressioni di orrore e di disgusto il suo amore per Ippolito e ci aspetteremmo la risposta di Enone che tanto l’ha forzata a confessarsi. Racine, invece, rompe l’equilibrio della conversazione introducendo Panope che annuncia la morte di Teseo. A questo punto Enone si sente di consigliare Fedra di dedicarsi alla successione del marito e di non ossessionarsi più per un sentimento che, con la morte di Teseo, non è più così colpevole. Non ci fosse stato l’annuncio della morte del re, spiega, lei stessa avrebbe spinto Fedra a morire e l’avrebbe seguita.
In questo perfetto equilibrio tra personaggio e confidente c’è un’eccezione: Teseo. Questi non ha confidente e, quindi, non ha occasione e modo per dare corpo al suo pensiero e al suo sentire, facendosi trascinare da un’emozione senza forma che lo fa condannare il figlio senza neanche chiedersi se fosse logico ciò di cui è accusato. Mentre gli altri prima si conoscono attraverso il confidente e poi agiscono, Teseo prima agisce e poi pensa e così quando una serie di indizi, che gli sono rimbalzati incontro durante la sua disordinata ricerca della verità, gli instillano il dubbio è troppo tardi. Il motore finale della tragedia è risolto da Racine attraverso una soluzione strutturale, la mancanza di un confidente per Teseo.
C’è un altro elemento strutturale attorno a cui Racine fa ruotare la sua tragedia. Il suo senso, l’abbiamo ripetuto fin troppo, consiste nell’assolutezza della parola e, quindi, nella presenza. Eppure due fulcri della tragedia sono espressi dalla mancanza e dal silenzio. Tutta la prima parte di Fedra è caratterizzata dall’assenza di Teseo. È per cercarlo che Ippolito vuole partire, è la notizia della sua morte che mette Fedra nella condizione di confessarsi a Ippolito, è, viceversa, quella del suo ritorno che determina la precipitazione dei fatti. Quella mancanza ha, dunque, una funzione strutturale nel determinare le condizioni fattuali della tragedia.
Il secondo elemento è il silenzio. Una volta avuto il suo incontro sconvolgente con Fedra, Ippolito resta gelato e muto. Quando Teramene gli chiede cosa sia successo, gli risponde che preferisce annegarlo nel silenzio e anche quando il padre, convinto da Enone che sia colpevole, lo aggredisce ed esilia preferisce restare fedele al suo principio e si affida, per difendersi, solo all’evocazione della sua natura integerrima. L’unica con cui si confessa è Aricia ma solo per impegnarla a un voto del silenzio che lei manterrà anche quando ha un vibrante alterco con Teseo. Ma sarà allora che quella sua reticenza, quella ostentazione nel non dire, indurranno Teseo al dubbio e lo condurranno a richiamare Ippolito per parlare con lui. Troppo tardi, Ippolito è morto restando legato al silenzio che lo ha condotto a perdizione così come il silenzio resterà nelle orecchie di Teseo fino a che Fedra, nella scena finale, non verrà a scioglierlo.
L’affermazione racianiana che Fedra sia la cosa più razionale che abbia mai scritto, dopo il percorso di lettura che abbiamo fatto, perde un po’ della sua natura apodittica e guadagna, invece, di dimensione fattuale. Quella razionalità evocata da Racine è una questione di struttura, e così la specifica natura tragica di Fedra sembra risiedere proprio nel suo impianto architettonico portandoci a dire che, mai come in questo caso, la tragedia è la sua forma.