Pilade

Il dramma Pilade (il primo a essere pubblicato nel 1967, dopo la stesura assieme agli altri drammi nel 1966) è pura mitopoiesi: non rielabora nessun dato preesistente, ma inventa dal nulla un sequel dei fatti narrati nell’Orestea di Eschilo, che Pasolini aveva tradotto nel 1960 per lo spettacolo di Vittorio Gassman a Siracusa. Immaginare la continuazione di un’opera precedente è una delle operazioni più diffuse nella storia della letteratura e delle arti, dall’Odissea all’Orlando furioso fino alle tante espansioni della nostra epoca digitale. In questo caso il principio guida non è né l’imitazione, né la correzione del modello, ma solo il dialogo ideologico con un testo ormai archetipico, utilizzato come una griglia da riempire con
materiali contemporanei. Se proprio si vuole trovare un antecedente antico per quest’operazione del Pilade, ci si può richiamare allo sperimentalismo dell’ultimo Euripide, che nell’Oreste immaginò un intervallo di sei terribili giorni fra il matricidio e il viaggio ad Atene, dove
l’eroe riceverà l’assoluzione dell’Areopago; un intervallo in cui la città di Argo delibera la lapidazione del matricida, che cerca di salvarsi con ogni mezzo, coadiuvato dalla sorella Elettra e dal caro amico Pilade.

Nel dramma di Pasolini questi tre personaggi diventano portatori di ideologie differenti, con continui rimandi alla realtà dell’Italia del dopoguerra;
il teatro di parola si trasforma così in un’allegoria civile, in un conflitto di idee che trova varie rispondenze con l’attività giornalistica dell’autore.
Oreste rappresenta la modernizzazione americana, e quindi una democrazia razionalistica che si illude di poter rimuovere il passato arcaico e che costruisce freneticamente il futuro; Elettra incarna invece un attaccamento morboso e fascista alla tradizione; mentre Pilade condensa l’utopia di una sintesi, destinata a fallire. Nella tradizione questo personaggio compare solo come amico di Oreste (un’amicizia esaltata ed erotizzata), mentre qui assume un ruolo centrale, ricco di tratti autobiografici: la diversità, la passione per il passato unita però a una fede nella ragione, la contraddittorietà, il nichilismo, il tradimento dell’origine borghese, l’amore un po’ populistico per i contadini e gli emarginati, il senso ciclico e panico della natura. Questa ambivalenza di Pilade tra origine borghese e passione sottoproletaria si stempererà di fronte al mito (tutto pasoliniano) della giovinezza, che cancella l’asprezza delle divisioni sociali.

Nel I episodio della tragedia Oreste, appena rientrato ad Argo, esprime al Coro la sua ansia di novità: racconta della
divinità più giovane, di Atena, che vive nel pieno della luce, nei luoghi sociali della parola (piazze, mercati, porti, fabbriche, ecc.), perché non è nata nel modo «oscuro e tremendo» in cui nascono gli uomini e gli altri dei. L’assenza di madre e di crescita affannosa in un nucleo familiare implica dunque assenza di buio, di ansia, di assurdo, di tempo e quindi soprattutto di ricordi; e difatti il programma che Atena destina al popolo di Argo per bocca di Oreste è dimenticare il passato. Non vuole essere però una rimozione totale, ma una trasfigurazione onirica; Oreste rievoca
quindi la storia narrata nell’ultima tragedia dell’Orestea: le Erinni che lo inseguivano per «ossessionarlo», la commozione di fronte al primo tribunale umano, e infine la trasformazione delle Erinni in divinità benevole, in Eumenidi, metafora del programma politico di Pasolini che mirava a una sintesi fra arcaico e moderno, fra il mondo magico e sacrale della civiltà contadina e il mondo pragmatico e borghese delle moderne democrazie.

L’ansia di progresso sortisce subito i suoi effetti sul piano economico: come racconta il coro a inizio del II episodio il reddito dei cittadini si è raddoppiato, il commercio si è espanso in tutto il mondo, nuovi palazzi sorgono al posto delle vecchie case e tra le capanne ancora sopravvissute. Abbiamo quindi l’immagine mitica dell’industrializzazione selvaggia subita dall’Italia nel dopoguerra, bersaglio primario delle polemiche pasoliniane negli Scritti corsari. È un processo che provoca comunque immediatamente scompensi irreparabili: un vecchio pazzo che viene dalle montagne racconta di una morìa delle vacche, assalite da un male misterioso; le Eumenidi, urlando «niente si può dimenticare…» si sono in parte ritrasformate in Erinni. Sarà proprio questo mutamento a vanificare la rivoluzione voluta da Pilade; nell’VIII episodio un ragazzo narra come Atena abbia reinstaurato le Eumenidi; è quindi entrato nella città un corteo trionfale e pacifico, con sorrisi e rami d’ulivo, formato dal popolo, dagli scienziati e dagli artisti, e guidato da Oreste. La Dea della Ragione e del Futuro ha cambiato il corso della storia, portando con sé anche i lavoratori che avrebbero dovuto compiere la rivoluzione assieme a Pilade. Alla fine è dunque il mondo di Oreste a trionfare di un trionfo ambiguo e disperato, basato su di una radicale perdita di identità.  Una soluzione in cui si nota tutto il cupo pessimismo pasoliniano, per cui la storia non è che un inesorabile peggioramento; un pessimismo che colpisce soprattutto l’omologazione degli anni Sessanta, in cui tutti (anche gli intellettuali e gli artisti) celebrano una vittoria che non è vittoria, e si integrano in un mondo ormai privo di conflittualità. Anche nell’VIII episodio di Bestia da stile – magmatico dramma autobiografico scritto e riscritto in progress – le Eumenidi diventano «Eugenie, Euristiche, Eucaristiche», e non riescono a svolgere la funzione di integrare con la loro follia antica la nuova razionalità: degenerano lentamente, mentre ritornano i serpenti sul
loro capo. Uno dei temi su cui Pasolini ha più insistito nei suoi articoli sul “Corriere della Sera” è proprio la rapidità della «mutazione antropologica» che ha sconvolto l’Italia, facendola passare dalla civiltà contadina a quella industriale in un batter d’occhio, senza un disegno organico e graduale; ad esempio, scriveva a proposito delle varie culture italiane ormai sparite: «Per molti secoli, in Italia, queste culture sono state distinguibili anche se storicamente unificate. Oggi – quasi di colpo, in una specie di Avvento – distinzione e unificazione storica hanno ceduto il posto a una omologazione che realizza quasi miracolosamente il sogno interclassista del vecchio Potere». Il bersaglio di questa polemica non è quindi la modernizzazione in sé, quanto proprio la sua frenesia incongrua. Nel Pilade troviamo una prima enunciazione di questo tema in chiave mitica, che anticipa soprattutto il celebre articolo sulle lucciole. Il progetto molto pasoliniano di sublimare il mondo arcaico nel sogno e in una benevola follia è dunque fallito, incalzato dall’ansia di possesso, dalla furia borghese dell’accumulo capitalistico. Il nucleo più profondo di questo testo stratificato è la confusione tra i ruoli e la decostruzione delle contrapposizioni fra Oreste, Pilade ed Elettra. L’attrazione per i propri nemici non è che il corollario di un concetto più generale, cioè che non può esistere mai una vera vittoria.

Questa sospensione onirica, in cui i conflitti drammatici e ideologici perdono peso, viene esplicitata nel monologo finale del protagonista, ultimo messaggio sull’impossibilità del tragico prima dell’aperta, provocatoria bestemmia finale contro ogni ragione.
Con Giorgina Pi abbiamo lavorato intensamente proprio su questa sospensione onirica, che si rifrange su tutto il complesso sistema dei personaggi, mai del tutto negativi o positivi; e abbiamo riflettuto insieme sulle modalità con cui riproporre un teatro che talvolta può suonare oggi troppo didascalico o troppo lirico, ma che mantiene intatta la sua potenza drammaturgica e simbolica. Un lavoro iniziato a due sul testo e sulla sua esuberanza espressiva, e poi continuato anche sul campo, durante le prove, attraverso appassionanti confronti con le attrici e gli attori, nella costruzione progressiva dello spettacolo.