Il peso del mondo nelle cose
Debutto: Teatro Storchi, Modena, 29/09/20
A proposito di questo spettacolo
Partendo dai racconti dello scrittore tedesco Alfred Döblin Fiaba del materialismo e Traffici con l’aldilà, Alejandro Tantanian e Claudio Longhi, due artisti che condividono l’idea di un teatro aperto, vivo e dinamico, in stretto dialogo con il presente e la comunità, compongono un ritratto inedito del nostro tempo, ripensato da nuovi punti di vista, provando a immaginare un futuro luminoso in cui l’uomo ritrova la sua relazione con il mistero e riconosce la signoria immensa e inesorabile della natura.
Fra il 1940 e il 1945, Döblin, tedesco di origine ebraiche in esilio negli Stati Uniti, vive con forte disagio l’impatto con la civiltà americana industrializzata mentre in Europa divampa la furia nazifascista: in quegli anni, con il suo penetrante senso dell’umorismo e con l’acutezza del suo sguardo critico, costruisce due straordinarie invenzioni letterarie in cui i concetti di natura e umanità, presente e futuro entrano in tensione mentre si spinge a esplorare i misteri dell’aldilà, il mondo degli spiriti, passando in rassegna i modi in cui i morti continuano a comunicare con noi, qui, dall’altro lato dello specchio. E per farlo, mette mano ai generi popolari: la fiaba, il racconto fantastico, il thriller… dando loro un nuovo impulso e nuove forme.
In Fiaba del materialismo (pubblicato in Italia da Ibis) Döblin sceglie la strada del ‘divertissement’ per interrogarsi sulla rottura nell’equilibrio dei rapporti fra natura e civiltà, fra scienza e vita, e indagare con humour gli spettri del caos in cui si sentiva immerso: un improvviso sovvertimento delle leggi fisiche e delle regole naturali getta nello scompiglio il mondo, il disordine ha capovolto la realtà. La specie umana è isolata, sopraffatta, incapace di capire e di agire. Poi una tregua improvvisa riporta l’ordine. Ma non è più come prima, c’è una nuova consapevolezza nel rapporto tra l’uomo e la realtà. Traffici con l’aldilà (edito in Italia da Adelphi) è un thriller occultistico, una assurda detective-story, divertente e vorticosa, che racconta le indagini su un inspiegabile delitto in una piccola città della provincia inglese, durante la Seconda guerra mondiale, condotte da un circolo di spiritisti con una serie di sedute, nel corso delle quali sembrano prendere il sopravvento le forze dell’aldilà.
Due opere che raccontano un quanto mai attuale senso di sconvolgimento cosmico e le tensioni fra i concetti di conoscenza esatta e mistero, prova e intuizione, scienza e fantasia, che abbiamo vissuto dolorosamente in questi ultimi mesi. Dal montaggio di queste allegorie nasce Il peso del mondo nelle cose, una favola contemporanea che gioca con i codici del teatro – dal cabaret al mélo – per riflettere sul potere e sulla funzione dell’immaginazione nel rapporto con la realtà, chiamando a raccolta gli spettatori in una sorta di festa: un invito alla celebrazione permanente del teatro, uno spettacolo per tornare a credere nella forza della fantasia.
Note
C’era una volta l’Hubei,
un’arcana contrada annidata tra le alture a nord del lago remoto, sin dalla lunga notte delle primavere e degli autunni patria del potentissimo regno di Chu…
31 dicembre 2019: le autorità cinesi riferiscono all’OMS l’emergenza di diversi casi di una misteriosa polmonite. Epicentro della malattia la città di Wuhan, con origine probabile da un mercato di pesci e animali della città stessa.
31 gennaio 2020: A fronte dei primi due casi di contagio riscontrati nel Paese, l’Italia proclama lo stato di emergenza sanitaria nazionale per sei mesi.
4 marzo 2020: il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dichiara: «La verità è l’antidoto più forte, la trasparenza il primo vaccino di cui dotarci».
11 marzo 2020: l’OMS comunica che l’epidemia da Covid 19 «può essere caratterizzata come una situazione pandemica»…
Per effetto di un improvvido starnuto della natura nelle sue manifestazioni più infime (sua altezza un microscopico virus, rigorosamente incoronato, però – recapitatoci, come nelle più angosciose fiabe del terrore, da un sinistro e svolazzante lacchè in livrea di pipistrello), da alcuni mesi il nostro mondo sembra uscito dai suoi cardini. Dopo decenni di dotte e affilate anatomie della modernità e dei suoi miti, il «rischio globale» si è finalmente – e improvvisamente – palesato qui ed ora, non decentrato nei consueti ed esotici “altrove” dei terzi e quarti mondi cui siamo stati per anni avvezzi o rinviato al prossimo decennio che perpetuamente verrà, ma schiantato con forza e brutale innocenza nel nostro quotidiano, annichilito nell’orrore indicibile della morte seriale o straniato nelle sterminate file per fare la spesa al supermercato o nei cori serotini alle finestre per cantare, impotenti, la nostra libertà… E di fronte all’ammattire del pianeta, il controverso confronto con la scienza: ora alla ricerca di risposte rassicuranti, ora per protestare contro inutili cautele, ma sempre sconcertati dall’inattesa e ventriloqua polifonia relativistica dell’amica Sofia – incapaci di accettare la mancanza di una verità.
Nello strepito di questo «dramma grandioso» che giorno dopo giorno marchia a ferro caldo la nostra carne, che spazio resta all’inutile teatro – se non quello di tracciare labili e ipotetiche mappe dei nostri amletici «brutti sogni» per tentare di rimettere un eventuale (per quanto precarissimo e, non già aperto, ma spalancato) ordine nella realtà, raccontando storie (anzi, al possibile, «histoires» ancora «significatives»)? Sì! A un dipresso: una volta, c’era…
Navigando nel «pulviscolo delle storie» ci siamo così imbattuti in due operine di Döblin, l’Omero – per dirla con Brecht – del Novecento (il cantore della Neue Zeit, della metropoli e della violenza della tecnica), in un’inedita veste, però, di iniziato ai segreti eleusini: La favola del materialismo e Traffici con l’aldilà (entrambe pubblicate nel ’48, ma entrambe nate durante gli anni tribolati dell’esilio americano dell’autore). Una favoletta in forma di palinodia paralucreziana della dottrina democritea à la manière de La Fontaine e un giallo degno della miglior Agatha Christie, condotto a colpi di sedute spiritiche, perso in una verdeggiante contea della «superba Albione»… Indiscutibilmente, due trascurate “nugae”, a petto del monstrum Berlin Alexanderplatz, epperò due diabolici e sofisticatissimi ordigni letterari, nella loro ostentata leggerezza e ironia. Al centro dei due cunti – generati da un medesimo sconvolgimento cosmico figlio nell’un caso della crisi depressiva della natura subentrata alla sua presa di coscienza di essere mera materia e nell’altro di una temporanea nausea della natura stessa, ahinoi così attuale!, tutta intenta a rivomitare i trapassati sui viventi (o forse i viventi sui trapassati?) – le dicotomie di conoscenza esatta/mistero, prova/intuizione, scienza/fantasia esplorate in tutte le loro infinite declinazioni e possibilità. Orizzonte comune dei due divertissement: la morte – nella sua ottusa insuperabilità di gusto quasi canettiano e nel suo incessante e sin quasi indecente flirtare con la vita…
Da un rocambolesco montaggio ejzenstejniano delle due svelte allegorie (d’altronde, «se un romanzo non può essere tagliato in dieci pezzi come un lombrico», era uso ripetere il Nostro, «e ogni parte non è in grado di muoversi da sé, allora non vale niente»), è nato dunque Il peso del mondo nelle cose, una fantasmagoria a matrioska (non per nulla figlia dell’amore infinito di Marina Cvetaeva e di Boris Pasternak consumato tra lo sbuffare dei treni alla stazione) sceneggiata per ripensare “in maschera” alla nostra fantomatica “Fase 2”. Una favola rappresentativa tutta contemporanea e neoperformativa, messa in scena per dissolvere il palcoscenico nel gran teatro del (nostro sconvolto) mondo…
Giocando “a soggetto” coi codici del teatro e incastonando uno sgangherato cabaret di provincia, in vago odor di Muppet Show, a un mélo in bilico tra El baso de la mujer araña e La ley del deseo, senza però dimenticare le Contemplations di Victor Hugo, Il peso del mondo nelle cose è anche e soprattutto una festa di teatro. Una riflessione sul potere e la funzione dell’immaginazione (mimetica e non) nel rapportarsi alla realtà, così come essa è. Del farsi comunità. Dello stare sospesi, come nel teatro, come nella vita, «insieme, una volta ancora, qui convocati, in attesa che tutto questo diventi finalmente qualcos’altro, riuniti, decisi, fatali, accesi, ritardatari, timorosi, così coraggiosi, così uniti, così separati, così preoccupati e così senza pensieri, malati, sani, vivi, morti, insieme, una volta ancora».
Venite! Siate tutti voi i benvenuti!
C’era (forse) una volta…
Alejandro Tantanian e Claudio Longhi
Durata: prima parte 1 ora e 45 minuti // seconda parte 1 ora e 20 minuti
In Tournée
Dati artistici
elementi scenici a cura del Laboratorio di Emilia Romagna Teatro Fondazione
costumi Gianluca Sbicca
luci Vincenzo Bonaffini
disegno sonoro Alberto Tranchida
arrangiamenti musicali Renata Lackó
preparazione al canto Cristina Renzetti
assistente alla regia Davide Gasparro
direttore tecnico Massimo Gianaroli
direttore di scena Gianluca Bolla
capo elettricista Uria Comandini
elettricista Nicolò Fornasini
fonico Pietro Tirella
attrezzista Elena Giampaoli / Eugenia Carro
sarta realizzatrice e sarta di scena Eleonora Terzi
responsabile del Laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
costruttori Sergio Puzzo, Marco Fieni, Riccardo Benecchi
scenografe decoratrici Ludovica Sitti e Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni, Martina Perrone (tirocinante)
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione
foto di scena e documentazione video Francesca Cappi
Il testo dello spettacolo IL PESO DEL MONDO NELLE COSE è pubblicato nella collana Linea di ERT Fondazione e Luca Sossella Editore.